guerra civile medio oriente

La Versione del Venerdì. La guerra civile in Medio Oriente è la stessa delle nostre città

La guerra civile in Medio Oriente è la stessa delle nostre città

21 Maggio 2021- La Versione del Venerdì di Alessandro Banfi

 

Milano o Roma sembrano tanto lontane. Lontane dai missili di Hamas, dalle sirene di Tel Aviv, dai bambini fra le macerie di Gaza. Invece sono molto più vicine di quanto pensiamo. Il conflitto che si è appena fermato, dopo undici giorni di angoscia, per un cessate il fuoco che speriamo porti alla pace, ci riguarda. Riguarda anche noi, la nostra società, la nostra convivenza. Non solo perché non si può essere moralmente indifferenti e distratti di fronte alle tragedie altrui. Ma per il messaggio profondo di questa sporca guerra. La lotta più che decennale fra Hamas e Israele, dovuta alla questione palestinese, non ha, in prospettiva, grandi sbocchi. La soluzione che mezzo mondo vorrebbe, quella di due popoli in due Stati, non è mai stata raggiunta, neanche quando sembrava alla portata. Questa volta, però, è diverso. Il conflitto è infatti scoppiato, secondo i più obiettivi osservatori internazionali, proprio alla vigilia dell’ingresso di un partito arabo islamico, il Ra’am di Mansour Abbas, nel nuovo governo israeliano. La trattativa era nelle fasi finali. Né Netanyahu, né Hamas avevano interesse che si realizzasse questo avvenimento storico. Avrebbe tolto loro un po’ dell’acqua in cui nuotano.

Interessi opposti e convergenti, come a volte accade, hanno cospirato quindi a favore dello scontro armato. Non solo, questa volta i missili di Hamas e i bombardamenti dell’aviazione israeliana, che rivendica il diritto di difendersi dai terroristi, hanno scatenato focolai di guerra civile nel Paese. Lo stesso Netanyahu è dovuto intervenire in televisione per fermare i linciaggi e le violenze reciproche, appellandosi alla gente e chiedendo fermezza alla polizia. Violenze fra arabi ed ebrei, tutti cittadini israeliani, che hanno anche portato all’assalto alle moschee e alle sinagoghe. In alcuni casi veri e propri pogrom. Nello scontro feroce ci sono stati anche esempi positivi: il rene di un elettricista ebreo di Lod, linciato dalla folla dei suoi concittadini arabi, espiantato dopo la morte, ha salvato la vita ad una bimba palestinese. È lo stesso spirito che aveva sorpreso il mondo nella lotta al Covid, quando in Israele anche infermieri e medici arabi avevano contribuito ad una vaccinazione di massa record, senza precedenti.

Le ferite di questa sporca guerra sono dunque più profonde di quelle provocate da periodi bellici simili, già accaduti qualche anno fa. La violenza estremista e le operazioni militari tolgono ogni possibilità alla convivenza e all’integrazione fra popoli e persone di diversa etnia e provenienza. L’altro è il nemico. Non è una persona ma un ruolo, una funzione, una bandiera, un’astrazione. Pensiamo quanto è vero questo anche nelle nostre città, nelle nostre periferie, nei ghetti che abbiamo creato. Nelle nostre metropoli c’è a volte una diffidenza, anche interiore, verso l’altro che è il segno di un razzismo a tratti involontario, profondo, radicato nelle nostre coscienze. La sfida ci riguarda e anzi su questo terreno ci giochiamo una piccola partita per il nostro futuro.

Un’ultima annotazione. A Gaza almeno 60 bambini sono stati uccisi e altri 444 sono stati feriti in questi giorni. Circa 30 mila bambini sono stati sfollati. Si stima che 250mila bambini abbiano bisogno di servizi per la salute mentale. Almeno 4 strutture sanitarie e 50 scuole sono state danneggiate. Circa 48 scuole sono state usate come rifugi d'emergenza. Sono dati dell’Unicef. Le guerre sono sempre sporche e cattive, soprattutto fra i più deboli, soprattutto per donne e bambini. Le guerre sono anche sempre sproporzionate. Il bilancio provvisorio allo scoccare della tregua conta 232 vittime palestinesi e 12 israeliane.