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Parla Maryan Ismail: “Milano non è accogliente, non sono d’accordo con Sala”

Parla Maryam Ismail: “Milano non è accogliente, non sono d’accordo con Sala”

27 Maggio 2021- L'Intervista di Alessandro Banfi a Maryan Ismail

 

Una settimana fa avevamo lanciato il tema provocatorio dei riflessi della guerra civile in Medio Oriente fra arabi ed ebrei nelle nostre città. Oggi ci torniamo parlando di Milano con Maryan Ismail, afro-italiana che vive da quarant’anni in Italia. La Ismail è di origine somala, si è impegnata nel nostro Paese e in particolare a Milano e in Lombardia come antropologa e mediatrice culturale. Ha militato nel Pd, ma poi ha lasciato quella esperienza perché ha ritenuto non inclusiva la scelta di quel partito a scegliere esponenti appartenenti all'Islam politico/ideologico. Denunciata dal PD, per due volte i giudici le hanno dato ragione. Si è anche presentata alle ultime regionali lombarde con Stefano Parisi e continua a far politica nelle associazioni Piattaforma Milano e Voce Italia. Milano, dunque. È davvero una città accogliente? “No, non lo è in maniera sufficiente e la cosa mi mette a disagio” dice Maryan a 10alle5 Quotidiana, “quando Beppe Sala dà questo ritratto buonista, fa una semplificazione sbagliata. Qui la città ha bisogno di integrare e includere davvero, vive una ghettizzazione strisciante, che può minare il futuro, compromettere le prossime generazioni. Abbiamo bisogno di uscire dalla estremizzazione, di abbandonare i luoghi comuni”. Durante gli undici giorni dei missili di Hamas su Israele e delle bombe israeliane su Gaza anche Milano si è divisa in piazze. Pro palestinesi, pro ebrei. Eppure, se c’è un momento in cui dovrebbe prevalere il dialogo e il confronto è questo. Vale lo stesso per altri temi importanti, ad esempio quello dell'immigrazione e coesione sociale. Le immagini dei cadaveri dei bambini sulle spiagge libiche e l’ultima dura denuncia di Mario Draghi davanti ai 27 del Consiglio Europeo, “Noi italiani siamo lasciati soli”, hanno risvegliato le coscienze di chi pensa che i migranti e l’integrazione nella nostra società non siano più un problema.

Da dove dobbiamo partire per aggredire davvero la questione?

Maryan Ismail: Dall’educazione e dalla formazione. Non credo nella narrazione di Sala su Milano città accogliente. Non è vero. Nei centri di prima accoglienza, dove arrivano tanti minori non accompagnati, non si è fatto nessun lavoro. Non mi interessa la marcia colorata organizzata dagli slogan di Pierfrancesco Maiorino e lui lo sa. Milano non è strutturalmente accogliente, lo è semmai nel buon cuore dei cittadini. Una città che comunque sia è cosmopolita, aperta, ricca. Nessuno ti guarda male in metro se hai il velo in testa o le ciabatte ai piedi. Lo posso dire perché vivo la città dalla mattina alla sera. A parte qualche esagitato che può magari straparlare, mai nessuno mi ha mai offeso. Però dal punto di vista della gestione dell’immigrazione è assolutamente carente. Ci sono ragazzi in periferia, magari di seconda o terza generazione, magari nati alla Mangiagalli, che mi raccontano: la mia maestra mi parla come se non capissi niente, fossi arrivato ieri. Un riscontro si ha nelle scuole: non c’è il ragazzino arabo o africano che va al san Carlo o al Parini. Al liceo sono presenze rare, se non minoritarie. C’è una forma di ghettizzazione antropologica a monte.

Lei è d’accordo con la proposta dello Ius soli?

Ismail: Dobbiamo dare la possibilità ai ragazzi filippini, cinesi, africani di diventare italiani. Uno Stato laico e democratico moderno, cosciente di quello che rappresenta, non può lasciare questi giovani nel limbo. Nell’indifferenza. Se noi lavoriamo con loro in una dimensione positiva, li rendiamo subito ambasciatori della nostra civiltà e allora la convivenza ha un senso, fa crescere tutti. Se li consideriamo con sufficienza, di serie B, li spingiamo sulla strada sbagliata. Li spingiamo nelle braccia di chi dice: l’Europa è colonialista, l’Europa è razzista. Ma non ci si può fermare allo ius soli. I ragazzi sono stufi di sentire una proposta di bandiera, che è lì ormai da vent’anni, e poi non si arriva a nulla. La sinistra sta facendo una battaglia sul DDL Zan però sullo Ius Soli è pavida. Preferisco che si metta mano alla già esistente legge sulla cittadinanza. È questa la strada da percorrere. Andiamo a vedere come rinnovare, aggiornare la legge sulla cittadinanza che già c’è per renderla più inclusiva ed efficace per il 2021. Dobbiamo de-ideologizzare la questione. La politica italiana avrebbe bisogno di essere insieme più concreta e più visionaria. In Italia c’è un vuoto sociale ed educativo. In Germania dopo due anni dall’arrivo, il migrante deve sostenere un esame di lingua e cultura tedesca e dimostrare di sapere il tedesco a livello B.

L'integrazione non è socialmente strutturata.

Maryan: Non c’è strutturazione sociale, così come per la formazione scolastica. Noi abbiamo delle linee guida del Miur, ma la loro applicazione non è prevista per tutti i vari centri, tipo Cara, Caf eccetera. Ho lavorato insieme al Progetto Arca in un centro per rifugiati e soprattutto nei mesi del lockdown mi sono resa conto del livello molto basso di conoscenza della lingua italiana. Ci sono ragazzi, africani o asiatici, che parlano benissimo l’inglese e il francese, com’è possibile che in Italia non possa essere previsto in maniera seria lo studio della lingua e della cultura? Non con i volontari ma con dei professori selezionati e certificati. Le leggi italiane oggi prevedono l’esame di lingua solo per il permesso di soggiorno di lunga durata o quando fai la richiesta di cittadinanza. Invece dovrebbe essere un fatto normale che si insegni subito la lingua, appena si arriva. Come si dice: non mi interessa che tu mi dia il pesce, ma la lenza per pescarlo. La lingua è uno strumento indispensabile per convivere in comunità.

La lingua, e poi?

Ismail: L’altro strumento è la conoscenza dei fondamenti della nostra convivenza. I principi costituzionali e quel minimo indispensabile sulle leggi, che ogni cittadino deve conoscere. Perché non si insegna a questi ragazzi? Quando parlo con i ragazzi musulmani, all’inizio mi parlano con gli occhi puntati verso terra, perché per loro è inconcepibile parlare ad una donna. E io spiegavo loro: questo è uno di quegli ostacoli che se non lo superate, non capirete mai la cultura italiana. Al termine di un percorso si relazionavano con me senza badare al fatto che ero una donna. Prima del mio arrivo i giovani musulmani sciiti non parlavano con quelli sunniti. Alla fine di un percorso comune, abbiamo letto il Corano insieme, ebbene alla fine si sono parlati. Questo vuol dire che se si hanno gli strumenti per aiutare la formazione e la conoscenza, è lì che arriva l’integrazione. Non è solo fra stranieri e italiani.

Siamo tutti condizionati da una forma di “razzismo involontario”…

Ismail: Certo! Altro che solo gli estremismi alla Casa Pound. Dobbiamo cercare di superare questi conflitti in modo strutturale. La politica deve avere un tavolo permanente di professionisti che lavorano sul superamento dei conflitti interni alle comunità e anche all’esterno, con gli italiani. C’è un lavoro da fare all’interno delle comunità dei migranti ed uno all’esterno. Una problematica già evidente sin dal 1998 quando discutevamo nella consulta nazionale per la legge Turco Napolitano, di cui facevo parte. Ne è testimone don Virginio Colmegna. Discussione interna e discussione esterna.

Che significa?

Ismail: Quando dico interna, penso ad esempio alla cultura islamica. Noi abbiamo degli scismi molto forti non ancora risolti fra sciiti, sunniti, kharigiti e il razzismo contro gli africani. All’interno dei luoghi di accoglienza queste divisioni sono ben presenti, che piaccia o non piaccia. Ad esempio, c’è una discussione sul ruolo e il riconoscimento della donna musulmana. Le donne sono trattate come “categoria dhimmi”, cioè obbligate ad essere sotto protezione. Nel senso che noi donne islamiche, se non abbiamo il benestare della nostra famiglia, non possiamo fare le nostre scelte. La scelta di non indossare il velo, la libertà di scegliersi lo sposo, se non si vuole accettare la poligamia, l'eredità paritaria tra maschi e femmine… Dobbiamo avere la forza di affrontare questi problemi e far capire che qui c’è una possibilità diversa e il diritto alla libertà della persona.

Non è una battaglia difficile?

Ismail: Dobbiamo ricostruire un codice sociale di coesione, un linguaggio riconosciuto. Alcuni principi devono essere chiari e irrinunciabili per tutti: non si può andare contro una persona solo perché ha la kefiah, il hijab o la kippah. Non ci devono essere raid razzisti contro i simboli, le persone, ma anche contro i luoghi di preghiera. Solo sporcandoci le mani tutti quanti insieme, per costruire la nostra società, allora si prosciuga l’acqua in cui navigano le parti più estremiste e reazionarie. La prima riposta tocca ad ognuno di noi e va data così.

 

A cura di Alessandro Banfi